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Palazzi di Parma
  • junionpan66

[racconto lungo] Lili (3 di 11)


Il fatto è che c’è sempre stato qualcosa di indicibile. Qualcosa che non si poteva e non si può dire perché, nel momento in cui lo si fa – sia pure senza risentimento o vittimismo alcuno, sia pure con tutta la determinazione di questo mondo ad andare avanti - subito ci viene appiccicata addosso un qualche tipo di insufficienza psicologica. In fondo non è difficile. Sono sufficienti due parole, corredate di articolo e predicato: la-vita-fa-schifo. Questa è la realtà di cui non si può parlare, pena il venir tacciati di negatività dagli equilibristi del karma o dai poeti dell’ottimismo. E tuttavia, malgrado il nostro punto di vista sia in effetti suscettibile di cambiamento in relazione alla buona o cattiva sorte (7), ciò non toglie che la vita nel suo complesso, nel complesso delle quantità astronomiche di sofferenza che genera ogni giorno, faccia schifo. Se va di lusso per noi, possiamo esser certi del fatto che per altri, per molti altri, sia un incubo. Le ragioni di chi non è disposto ad ammetterlo, sono perfettamente comprensibili. La paura è comprensibile. Prendiamo il suicidio, ad esempio (8). È una scelta che a tutti gli effetti dovrebbe essere considerata legittima, laddove non sussista una fede religiosa che assegni al Dio di turno un qualche tipo di prelazione sulla nostra vita, eppure viene interpretata da chi vive come una malattia, un disturbo, un’anomalia, insomma qualsiasi cosa possa allontanarne il concetto il più in fretta possibile. Perché? Perché, credo, le ragioni che ci tengono in vita fanno capo da una parte all’istinto di sopravvivenza e dall’altra alla forza di volontà che sappiamo essere più forte dell’istinto, quando vuole. Comprensibile dunque aver paura di un’eventuale deriva dei propri pensieri. Comprensibile temere, nel momento in cui si prendono le distanze dall’irreparabile gesto altrui, che il morbo ci contagi dall’interno cogliendoci privi delle più elementari difese.

E tuttavia, la nostra legittima determinazione a viverla non toglie che la vita faccia schifo. Fa schifo perché è un eterno conflitto senza soluzione. Conflitti tra popoli, tra etnie diverse, tra religioni diverse, tra genitori e figli, tra amanti, conflitti in cui se io vinco l’altro perde e se l’altro vince allora perdo io, conflitti nei quali spesso, troppo spesso, il pensiero dell’uno costituisce la nemesi dell’altro e dove quindi non esistono punti di incontro, soltanto vincitori che propugnano la vittoria come verità universale – e non per quello che è, cioè il punto di vista del più forte - e vinti che camuffano la sconfitta dietro la maschera dei buoni sentimenti (9). La vita fa schifo perché il benessere individuale a cui siamo abituati, lo stesso che ci qualifica nella società in cui viviamo, sottrae sempre e comunque qualcosa non solo alla felicità collettiva, ma persino alla mera sopravvivenza della parte più cospicua del genere umano, quella delle persone per le quali l’insignificanza sociale non ha mai costituito un problema, perché il problema principale per loro è sempre stato ed è ancora la pura e semplice sopravvivenza, propria e dei propri figli. Lo so, è un approccio filosofico cinico quanto basta per essere considerato conservatore, eppure da qui partono le mie considerazioni al riguardo, cioè dalla consapevolezza che la vita è sofferenza per la gran parte degli esseri umani e che nessuna religione possa assolverci dalle nostre responsabilità, perlomeno intellettuali. Dunque la domanda è: possiamo ammettere che la vita fa schifo e ciò nonostante continuare a vivere e godere nel farlo? Intendo nel moderato consumo dei piccoli piaceri quotidiani - del cibo, del bere, dei buoni libri, dei contatti umani, del sesso, del riposo dopo la fatica, del silenzio dopo la confusione, del sogno dopo la realtà, nella consapevolezza di avere intorno un mondo di gente che soffre, ma anche crea, immagina, si proietta verso il prossimo e vola, vola con la fantasia. E infine, possiamo convivere con i sensi di colpa, pensando a tutte quelle persone che non hanno nulla o quasi di tutto ciò di cui noi disponiamo, sentendoci spesso e comunque infelici? Mi guardo intorno, al centro dell’ala vecchia della casa, e realizzo: 1) di non sentirmi tutto sommato così infelice, e 2) che forse non dovrei trascurare in questo modo la mia fortuna, lasciando che la natura guadagni terreno.


Non si rende conto che c’è sempre qualcosa che non va, in tutti. Spesso più di una sola cosa.”

David Foster Wallace, Il re pallido


"Disse il gufo alla civetta: qui si allunga la pugnetta…"

Detto popolare








NOTE




(7) Quanto è legittimo esprimere un giudizio positivo sulla vita se è chiaramente subordinato a qualcosa di tanto effimero quanto può esserlo ciò che in Romagna viene metaforicamente e volgarmente definito bus de cul? Con quale presunzione ci si arroga la facoltà di definire bella la vita se si ha la fortuna di disporre di tutto ciò di cui necessita la propria sopravvivenza (e anche di più), nello stesso momento in cui qualcun altro chiaramente no? Se si hanno buone ragioni di ritenersi fortunati e tutte le intenzioni di godersela, la propria fortuna, non si dovrebbe avere anche e perlomeno il buon gusto di starsene zitti?


(8) Molti personaggi noti hanno compiuto il gesto fatale e ciò nonostante sono riusciti ad essere, per ciò che hanno detto o fatto o per l’immagine con cui si sono posti nel mondo, un punto di riferimento per altri. Ne cito alcuni che ho molto amato e stimato, per essermi in parte riconosciuto in loro, o nella loro opera: David Foster Wallace sopra tutti, ma anche Anthony Bourdain, Robin Williams, John Belushi, Tony Scott. Ci tengo a dire che la mia stima nei loro confronti, in qualità di artisti e di uomini, dopo non è venuta meno e nemmeno più. Semmai è cresciuto l’affetto virtuale che provo per loro in virtù del ruolo, da me auto-ufficializzato, di spiriti guida.


(9) Questo per dire come, rapportata alla capillare complessità degli eventi – complessità determinata dal fatto che anche il più piccolo e insignificante accadimento si relaziona in qualche modo a un evento o a una serie di eventi precedente e successiva – qualsiasi verità vada intesa in primo luogo come un’interpretazione e in secondo come una semplificazione. A prescindere da quanto eloquente ci appaia il relatore che la pone alla nostra attenzione, nell’uno e nell’altro caso altro non potrà essere altro che una verità di comodo.


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