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Palazzi di Parma
  • junionpan66

[racconto lungo] Lili (2 di 11)

Aggiornamento: 2 ago 2022






Pensatela come vi pare, ma io sono dell’idea che i momenti più felici della vita si passino a letto, anche da soli. Sono le sette e qualche minuto di sabato mattina, e sto ancora sotto le coperte. Sono sveglio da almeno mezz’ora, ad ascoltare i fischi e i gorgheggi di volatili di cui non conoscerò mai il nome, strane creature che abitano il silenzio della campagna e compiono stravaganti evoluzioni nell’alba o si sfruculiano le ascelle piumate tra le fronde degli alberi mentre io mi palpeggio i testicoli e lascio pascolare i pensieri tra il sogno e la realtà. Dalla mia posizione vedo le cime degli alberi piegarsi al soffio del vento che ha spazzato via la nebbia degli ultimi giorni. Nebbia che ritornerà, lo so, in quanto fenomeno piuttosto comune da queste parti nel periodo invernale, ma che per ora ha liberato la campagna dalla propria umida stretta concedendo qualche giorno di vento e di sole che oltre ad aver ampliato il campo visivo, sembra aver portato lucidità e chiarezza anche nei pensieri.

Alle otto passate sospiro e prendo il cellulare, dal pavimento accanto al futon. Telefono a Grimaldi, che di sicuro sta dietro la scrivania già da un paio d’ore, per ragguagliarlo a proposito degli ultimi sviluppi del cantiere in via Trento, ormai terminato, e quando lui comincia a parlarmi del nuovo lavoro in via Pietrangeli – la costruzione di una palazzina composta da qua


ttro alloggi di civile abitazione -, lo blocco subito per ricordargli la mia intenzione di prendermi un periodo di riposo.

«Riposo?» ripete, come se la notizia gli giungesse nuova. Anzi, di più, come se il senso della parola gli fosse ignoto.

«Eh.»

Nel corso dei successivi venti minuti, tenta in tutte le maniere di convincermi a dargli una mano nel nuovo cantiere. Prima mi lusinga facendo leva sulle mie ineguagliabili capacità professionali - e dove lo trovo io adesso un muratore come te e bla bla bla -, poi assume un tono sostenuto e tenta di farmi sentire in colpa per il danno irreparabile all’azienda che la mia assenza comporta. Infine si rassegna e fa l’offeso, buttandola sul personale.

«Senti Graziano, se hai preso un lavoro per conto tuo non ne faccio una questione, ma ti sarei grato se non mi raccontassi balle.»

«Non ti sto raccontando balle.»

«Capito tutto: te l’ha chiesto lei. Liliana vuole fare un viaggio o devi ristrutturare il resto della casa?»

«Lei non c’entra, ci siamo lasciati.»

«Ah, è per questo allora. Potevi dirlo subito.»

«Per questo cosa?»

«Ti ha mollato e sei a pezzi.»

«Ma di cosa stai parlando?»

«Mica ti devi vergognare. Sei uno sensibile, l’ho sempre saputo.»

«Ma vaffanculo.»

«Ecco, appunto.»

«E comunque saranno poi cazzi miei. La vita non è mica soltanto lavoro.»

«No, infatti, la vita è una merda (4) e si lavora per non pensarci. Tu invece vuoi riposare

«Ti chiamo la prossima settimana.»

«Fai con comodo. Riposati


La verità è (si fa per dire) che la vita degli altri non interessa a nessuno, a meno che non serva a qualcuno. I miei genitori, ad esempio, credevano di essere ognuno più intelligente dell’altro e si illudevano entrambi, in modi diversi – l’uno sacro e l’altro profano -, di poter seminare in me un senso alle loro traballanti esistenze, e naturalmente usavano la presunta sacralità dei legami di sangue e dell’amore come un guinzaglio. A nessuno dei due interessava quello che ero, soltanto quello che secondo loro avrei dovuto essere. Oppure Antonio Grimaldi, il titolare della grossa impresa edile per cui lavoro in veste di artigiano svolgendo opere di muratura e carpenteria, che mi allunga furtivamente degli extra e ammicca per farmi capire che è meglio non parlarne con gli altri miei colleghi, per non generare inutili invidie e rivendicazioni; ha un brutto carattere ma con me fa l’amicone perché tra i circa venti dipendenti che annovera a libro paga e gli altri artigiani, quelli in grado di mandargli avanti un cantiere si contano sulle dita di una mano, modestamente. Per questo a volte finge di interessarsi alla mia vita privata, anche se in realtà non gliene frega un cazzo. Mia sorella, invece, mi telefona soltanto quando le servono soldi e non si prende nemmeno il disturbo di informarsi sul mio stato di salute, cosa di cui le sono e sarò sempre infinitamente grato. Liliana, infine, mi ha chiamato tre volte sul cellulare, forse perché non ha ancora accettato l’idea che tra noi sia finita e si sente sola. Non ho risposto perché confido che in breve tempo i pensieri a me dedicati le vengano a noia e spicchino il volo verso nuovi orizzonti.


Sposto le coperte ed esco dal futon (5), leggermente chino in avanti fino ai primi gradini della scala in arredo che scende nella zona giorno, per non picchiare la testa contro i nodosi travi di legno del tetto che lì sul soppalco sono pericolosamente vicini. Scendo quindi in mutande e maglietta nell’ampia stanza pavimentata a parquet, dalle pareti intonacate e tinteggiate di bianco che, insieme al bagno, costituisce la porzione da me ristrutturata della grande casa colonica circondata dai campi, comprata in parte con la quota dell’eredità lasciata dai miei genitori e in parte coi sudati risparmi del sottoscritto. Quarantasei metri quadrati abitabili, cioè meno del trenta per cento dell’intera superfice disponibile. Due stanze di luce e calore all’interno dell’imponente edificio diroccato, tutto polvere, oscurità, freddo e silenzio che sa di tempo perduto ed esili ragnatele di solitudini, passate di qui in un’altra epoca e ora emigrate in chissà quale landa oltre la morte (6). Due stanze che formano una piccola bolla di hi-fi, parquet riscaldato, termoarredo e lampadine a led che d’inverno si perde nel grande spazio ostile della natura, dove nemmeno la via Rossetta, nel respiro brumoso della nebbia, riesce a tracciare una significativa demarcazione. Due stanze comode e accoglienti. La Tana. Mi appresso alla cucina di elettrodomestici e mobili scoordinati, e accendo la stufa a legna, metto sul piano di ghisa la padella antiaderente, il barattolo del miele in tavola, preparo la moka del caffè. Mi vesto con gli indumenti buttati la sera prima sulla spalliera della sedia. Schopen, che finora ha seguito i miei spostamenti muovendo soltanto gli occhi, sdraiato al centro della sua personale alcova sotto la grande finestra affacciata a est, si alza e si scrolla i muscoli intorpiditi dal sonno. Con molta calma, attraversa la stanza e si piazza vicino ai piedi della sedia su cui negli anni ha esteso il proprio diritto di proprietà, anche pisciandoci contro fino a che non gli ho fatto rudemente capire che non era il caso. Lì rimane in attesa che lo sollevi, perché da solo non riesce ad arrampicarcisi. Una volta sistemato al suo posto, il muso rincagnato del carlino stride sopra la tovaglia come una pietanza bruciata, mentre il suo respiro asmatico enfatizza il pesante silenzio. Quando mi siedo per consumare la colazione e gli passo di quando in quando qualche boccone di pancake intriso di miele e cannella, ingoia senza nemmeno masticare, si lecca il muso e rimane in attesa dell’obolo successivo. A metà mattinata usciamo insieme incontro al pallido sole che veste la campagna di un diafano drappo brillante, impreziosito da trine di ghiaccio che brillano scongelando. Nessuno dei due sembra avere qualcosa di particolare da fare, a parte infilare le mani nelle tasche (io), annusare il terreno (il cane) e pisciare contro il tronco della grande magnolia che sovrasta il pozzo (entrambi). Entriamo nella parte dell’edificio abbandonata, a eccezione di qualche sporadico intervento di necessaria e spartana manutenzione volta a contenerne il degrado e impedirne il collasso strutturale. Il freddo è pungente, l’umidità invasiva, le ragnatele penzolano tra una trave e l’altra come festoni della memoria che celebrano nell’abbandono gli anni che passano. Negli angoli delle stanze sono ancora ammassate vecchie suppellettili della precedente occupazione umana, risalente alla metà del secolo precedente. È qui che Liliana provava il suo strumento. Mi ha spronato un’infinità di volte affinché mi decidessi a dare una ripulita a questa parte della casa, e pianificare il modo migliore di utilizzarla. Non era difficile intuire come il potenziale cambiamento rappresentasse per lei una tentazione irresistibile. Per chi vive proiettato nel futuro e lega ogni propria azione al conseguimento di un risultato, non è concepibile trovare soddisfazione in quelle esili architetture del pensiero che non hanno potere d’acquisto sul mercato della realtà. Quella che provo io è l’intima soddisfazione di essermi ricavato un rifugio sicuro nella brutale economia di una natura che potrebbe anche decidere di fare a meno di me in qualsiasi momento. La Tana rappresenta per me un valore che trascende quello immobiliare e anche la pressante necessità di avere un tetto sulla testa, un valore analogo a quello di un santuario per un religioso, uno spazio del quale pretendere l’inviolabilità facendone una zona franca – impermanente quanto vuoi, ma reale - in mezzo a un oceano di imprevisti. Schopen gironzola tra il vecchio pavimento a tavelle di quella che è stata a suo tempo la zona giorno, e quello di cemento della stalla, e lo fa con una certa disinvoltura perché è qui che passa le sue giornate quando vado a lavorare, potendo scegliere tra dormire al riparo oppure attraversare la gattaiola installata nella porta della rimessa e gironzolare fra l’erba, all’esterno. Rimango in piedi, nella penombra, con il cappuccio sollevato e le mani in tasca. Spio dalle finestrelle della vecchia stalla, ancora sezionate dalle originali grate di ferro corroso dalla ruggine, gli ultimi residui di nebbia che rifuggono la luce del sole lasciandosi riassorbire dal terreno. Le solite vecchie contraddizioni del mio vivere. Necessità di perdermi e ritrovarmi.


“Il suono del traffico mattutino sul ponte pulsava nella caverna come l’eco smorzata di un sogno.” Cormac McCarthy, Suttree













NOTE AL TESTO



(4) Credo sia un concetto socialmente più diffuso di quel che si potrebbe pensare, e posso comunque testimoniare di quanto sia comune nell’ambito dei cosiddetti lavori usuranti.


(5) Non è poi così strano che uno come Graziano abbia subito il fascino dell’estetica orientale. Io credo che la fascinazione dell’oriente sull’occidente sia analoga a quella che la cultura europea ha esercitato sull’America per un certo periodo del secolo scorso, al quale il trumpismo avrebbe poi messo fine - autocompiacendosi dell’ignoranza e dell’individualismo belluino tipici di un certo populismo americano e funzionali alle guerre commerciali poi poste in atto. Entrambe le suggestioni, del modello orientale e di quello europeo, derivano da un complesso di inferiorità - spirituale nel primo caso, culturale nel secondo - di cui il capitalismo, successivamente alla sua indiscussa vittoria storica, ha cominciato a soffrire. Complesso ampiamente fondato, direi, in entrambi i casi.


(6) È facile vedere disseminati qua e là nella campagna ravennate ruderi di questo tipo ed è impossibile, quando ci si imbatte, non pensare alle famiglie che vi hanno vissuto in un’altra epoca con mezzi e modalità completamente diverse dalle nostre: prive di un sistema mediatico, della rete di informazioni di cui noi disponiamo (e che spesso distorce quel senso della realtà che allora credo garantisse perlomeno un minore livello di ansia), e delle possibilità di scelta in campo alimentare e professionale di cui godiamo (o godevamo). Ma soprattutto prive della frustrante necessità di dare un senso alla propria vita, in quanto penso che sopravvivere, a quei tempi, fosse già un’impresa a tempo pieno.



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