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Palazzi di Parma
  • junionpan66

[racconto lungo] - Lili (1di11)

Aggiornamento: 2 ago 2022






Devo ammettere, a dispetto della vena romantica che pulsa nella mia mente fin dalla prima adolescenza, di non essere cambiato poi tanto dal ragazzino che in realtà faceva dell’introversione la cifra principale del suo vivere. Nel momento in cui ritorno a casa, la sera, desidero ancora trovare gli oggetti – le ciabatte, il pigiama, il vaso dello zucchero - come li ho lasciati la mattina, andando al lavoro (1). E poi il silenzio, nel quale scaricare la tensione della vita sociale e ricostruire ogni volta un equilibrio anche minimo. Potrei avere necessità e abitudini non comuni, me ne rendo conto, e tuttavia credo anche una sensibilità adolescenziale miracolosamente ancora attiva che appartiene a quel periodo della vita in cui non sai niente di niente, ma hai l’istintiva certezza di sentire tutto. Una sensibilità che, per fortuna o sfortuna, non se ne è andata con la stessa facilità della giovinezza in cui era radicata. Fatto sta che dopo una giornata di lavoro piena e sfiancante, l’idea di sostenere al ritorno una conversazione del più e del meno con Liliana, a volte mi dà la stessa sensazione di un colpo di grazia.

«Ciao amore» esordisce, e a me non va giù di sentirmi chiamare così perché in primo luogo è un’usanza che non appartiene agli uomini della mia generazione e in secondo mi disturba, come qualsiasi altra istituzionalizzazione del sentimento (2). Le ho già chiesto educatamente se possiamo evitare e usare il mio nome di battesimo, Graziano, ma Liliana si è scusata con una risatina furba e mi ha spiegato che proprio non riesce a farne a meno. Malgrado la cosa voglia passare per un esubero affettivo, so benissimo che si tratta di un’ennesima prova di forza e due settimane fa, già irritato per conto mio dopo certe discussioni sul lavoro, non ho avuto l’autocontrollo sufficiente per trattenermi.

«Com’è andata oggi, amore?» mi ha chiesto lei, anche se credo mi si leggesse chiaramente in faccia che non avevo nessuna voglia di parlare, e probabilmente me lo ha chiesto proprio per quello.

«Una merda, ma che te lo dico a fare? Sarà una merda anche domani e domani ancora, ma lo sarebbe ancora di più - e qui sta il paradosso del cazzo - se per un qualsiasi motivo dovessi perdere il lavoro. Quindi di che vogliamo parlare, amore? Di quanto è bella la vita? Di qualche tipo di fede che non voglio? Dell’escursione in programma per il prossimo fine settimana?»

Liliana è rimasta a guardarmi per qualche secondo, muta, poi si è chiusa in una bolla di silenzio che sembra poco compatibile con la sua normale rumorosità, ma alla quale l’ho vista più volte fare ricorso. E io, ora - consapevole di come lo sfogo infantile mi possa ancora costare la relazione in essere -, penso che forse dovrei sentirmi in difetto, anche se poi in realtà mi sento sollevato dal peso di una finzione che non sono più in grado di sostenere. Non che sia colpa di Lili, sia chiaro, ammesso e non concesso che abbia senso parlare di colpe. Lei è estrosa e intelligente, spiritosa e tollerante. Ha persino sedici anni in meno di me, che ne ho fatti cinquantadue lo scorso aprile, per quel che può valere. Ai miei occhi, ha solo un difetto. Troppa voglia di vivere. Il volume dei suoi desideri mi disturba, allo stesso modo in cui a volte mi dà fastidio il suono eccessivo del violoncello, quando si infervora provando gli ultimi spartiti musicali, nell’ala in disuso della casa. Io amo quasi tutta la sua musica, ma sta di fatto che accanto al repertorio più armonico, coltiva una vena trasgressiva composta in gran parte di dissonanze che proprio non riesco a farmi piacere (3).

Tornando a quello che è il suo carattere, l’esuberanza del suo ottimismo mi infastidisce, come se stesse cercando di provocarmi per farmi ammettere che qualcosa in me non funziona e sia arrivata l’ora di cambiare. Illusa. La sua ricetta esistenziale del momento consiste in un mix di arte, vita sociale, yoga, e l’unico tassello mancante per completare l’etica di tendenza è una dieta vegana. Logico, considerando quanto le piaccia mangiare.

Fin dall’inizio della nostra relazione, malgrado i suoi orari lavorativi le consentano di alzarsi più tardi - Liliana insegna musica all’Istituto Artistico Privato intitolato a Gianpaolo Boccaccini ed è membro del direttorio musicale del GAE, Giovani Artisti Emergenti, un’importante associazione culturale a livello nazionale -, Liliana non ha mai mancato di puntare la sveglia alle sei del mattino e farsi un dovere di preparare la colazione, condividendola in silenzio con me che devo essere in cantiere alle sette e venti. E proprio in quel momento, oggi, mi informa della sua decisione di lasciarmi e portare via tutte le sue cose prima di sera. Bang. Non so cosa dire. Mi pare doveroso, data la gravità del momento, osservare un minuto di silenzio. Anche due. Nel frattempo penso che forse mi sbaglio, ma ho l’impressione ci sia ancora uno spiraglio nella fermezza della sua decisione, lo spazio di un’ultima possibilità per dimostrarle che tra noi non è rimasta solo routine. L’invito sottinteso che Lili mi rivolge con gli occhi, mi pare, è quello di rimanere a casa e affrontare il problema, farle capire che non posso vivere senza di lei.

«Sono in ritardo» mormoro con un’occhiata colpevole e imbarazzata. «Ne parliamo questa sera.»

Invece posso, è questo il problema.


Non sono uno stupido e nemmeno un indifferente. Non mi sfuggono la gravità della situazione e i suoi sentimenti, ma è evidente che la cosa tra noi non funziona più e non vedo una soluzione, quindi mi sono messo la borsa del pranzo a tracolla e ho lasciato la stanza, la casa, la donna con cui ho mangiato, bevuto, parlato, dormito, scopato negli ultimi tre anni. Potrà sembrare ingiusto, e magari lo è, ma sono già in auto.

La diversità che ci separa, anche, è un problema. Negli anni a venire lei vede una costellazione di possibilità, io soltanto la confezione dei Cotton Fioc e i barattoli del caffè che si svuotano sempre più rapidamente - uno alla volta, un cucchiaino dopo l’altro, come clessidre, fino a doverli riempire di nuovo. Ciò nonostante non mi considero una persona infelice, pessimista, non soffro nemmeno di misantropia. Leggo un sacco di libri e negli ultimi anni ho sviluppato persino una sensibilità poetica. Credo di essere realista, tutto qui. Se è diventata una colpa, allora mea culpa. So di non credere più a nessuna delle idee che a Lili scaldano il cuore, ma allo stesso tempo mi solleva il pensiero che lei sarà ancora in grado di lasciarsene trasportare, appena superata la crisi in essere. E anche se sono convinto che l’essenza dell’essere umano sia soltanto un pugno di vaghe pulsioni – vaga sessualità, vaga affettività, vago senso di autoconservazione - vestite di idealizzazioni mutevoli come tutte le umane illusioni, vorrei farle capire che prima troncheremo la nostra relazione e prima ognuno di noi potrà tornare a sentirsi comodo nei propri abiti, a godersi le proprie inclinazioni. Illuso. Lo so. Da convinta idealizzatrice della vita qual è, temo che Liliana sia intenzionata ad assaporare anche quest’esperienza fino in fondo e non se ne andrà prima di aver pianto fino all’ultima lacrima.


“Comincio a credere che non conta quanto ami qualcuno.

Forse quello che conta è quello che riesci ad essere quando sei con qualcuno.”

William Hurt alias Macon Leary in The Accidental Tourist.




NOTE AL TESTO


(1) Il fatto è che il contesto della vita fuori e quello dentro il lavoro sono spesso così diversi tra loro che è un po’ come vivere due vite parallele.

(2) La cosa non è così irragionevole come sembra se consideriamo che a tutt’oggi non esiste una collocazione precisa della parola amore e che il vocabolo – stra-usato, stra-idealizzato, stra-banalizzato – si usa per coprire un ampio numero di situazioni che vanno dai legami di sangue, all’innamoramento, al rapporto di coppia, al sesso, alla religione, all’atto di carità, alla gratitudine, all’altruismo, alla generosità. Tutte cose molto diverse tra loro per le quali esiste già una definizione specifica, il che rende legittimo il sospetto che l’uso superficiale del vocabolo in questione sia analogo a quello di uno slogan pubblicitario, ovvero non dire quasi niente per lasciar immaginare quasi tutto. Promemoria a uso interno: ricordarsi di non ricorrere mai Alla parola amore a meno che, come nel caso specifico, non venga pronunciata da uno dei personaggi.


(3) Ai suoi tempi, o meglio ai miei, ho comprato Metal Machine Music, il famigerato doppio album di Lou Reed, allora in vinile, e non nascondo di essermi sentito un coglione mentre pensavo ai soldi spesi e ascoltavo i primi dieci minuti di rumori di fondo elettronici, per poi scoprire che quello era il mood dell’intero lp, per giunta doppio.
















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