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Palazzi di Parma
  • junionpan66

[racconto breve] - Il mio ultimo paio di scarpe

Aggiornamento: 30 lug 2022

Pomeriggio d’estate, di quelli silenziosi e distopici, quando la popolazione sparisce e la città rivive.

E anch’io, in un certo senso.

In pensione da quasi un anno, porto in giro i miei sandali, gli occhiali scuri, le t-shirt nere dai messaggi anarco-ambientalisti, lo zaino da ragazzino e quei pochi capelli bianchi rimasti, effimeri come semi di tarassaco.

La città mi si offre nell’intimo, in ogni sua singola vena e arteria, disponibile e languida, fin nelle più remote ramificazioni del suo apparato circolatorio, nel profumo del tempo e della storia che sembrano ormai segreti da condividere fra esuli in patria, sopravvissuti e sopravviventi. A questo proposito, qualcuno pronosticava che il peso del tempo ci avrebbe schiacciato, ma il peso del tempo è un’illusione, come del resto il tempo stesso. La verità è che invecchiando, con filosofia, il proprio ego diventa sempre più leggero, fin quasi a scomparire.

Verso le otto di sera ritorno all’alveare condominiale, anch’esso vuoto e miracolosamente silente. I raggi obliqui del sole trafiggono le vetrate dell’ingresso e incidono ideogrammi sulle logore piastrelle di travertino. Scendo in cantina per recuperare una scatola di vecchi libri fra i quali alcuni che vorrei rileggere. La trovo, la sollevo per portarla di sopra, ed eccole là dietro, in un angolo del pavimento di cemento di cui sembrano aver preso possesso in virtù della loro arroganza e del sarcasmo che ostentano ancora, a distanza di quasi un anno e a dispetto dell’usura. Dico sarcasmo perché fin da subito sembrano prendermi per il culo, intonando insieme la canzoncina di Modugno.

E il vecchietto dove lo metto, dove lo metto non si sa…

Arroganti e tronfie. Supponenti, ancora sicure di rappresentare la sola alternativa di un uomo. Mi guardano con quel ghigno scollato che si apre in punta tra la tomaia e la suola, quella bocca sadica, forte della ferrosa placca antinfortunistica che ha masticato le mie dita fino a rendermele storte e deformi.

Dita che ora si godono il riscatto all’aria aperta e gli anni che restano di vita, quella vera.

Sì, perché quelle vecchie, logore scarpe da lavoro rivendicano invece una vita diversa, fatta di fatica e sudore e sacrificio e dovere, sempre spacciati come qualcosa di sano, di positivo, di atavicamente etico.

Stronze.

Andatelo a dire a tutte quelle schiene doloranti, alle mani dalla pelle come cuoio, ai polmoni che hanno respirato polvere, calce e cemento, amianto e peggio. Alle mogli che si sono stancate di veder tornare tardi i loro uomini, doloranti e ingrugnati, come del resto quegli uomini di doversi giustificare. Andatelo a dire ai figli, che hanno scelto strade meno faticose, moralmente discutibili. L’etica del lavoratore onesto avrà anche retto per qualche generazione, ma con quel che si è visto in pieno boom economico, il postribolo di politici e imprenditori, mica si poteva pretendere che crescessero all’insegna della rettitudine. Andatelo a dire alla città e al territorio quanto hanno sofferto per la gloria del cemento, dell’automobile, della plastica, della disoccupazione ai minimi storici, della brutta copia made in Italy del sogno americano. Andatelo a dire al cielo e all’acqua in cui abbiamo espulso i postumi della sbornia modernista degli ultimi settant’anni.

Quanto le ho odiate, quelle scarpe, ma anche accettate e subite, persino amate, in fondo, perché sono state parte della mia vita che non posso amputare, né dimenticare. Gran parte della mia vita, a dirla tutta. Bella contraddizione. Per questo non ho avuto il coraggio di buttarle allora e non ce l’ho nemmeno ora. Credo che, dopotutto, si siano guadagnate questo piccolo angolo di cantina, come un sepolcro, in cui essere dimenticate e rimanere a sognare i fasti di un tempo che a me non appartiene più.

Libero.



NOTE AL TESTO


Nel caso non l’abbiate capito, il pezzo non è autobiografico, non in toto. È quindi con sommo dolore che l’autore vi informa del suo attuale stato di lavoratore attivo. E non c’è emoticon che possa versare a questo proposito, credetemi, un’adeguata quantità di lacrime.


Se avessi citato il nome della città, va da sé che verrebbe poi da chiedersi che razza di scrittore possa non scrivere qualcosa di più specifico e dettagliato per una località di spessore storico e artistico come Ravenna che, in effetti, è uno scrigno di meraviglie e mistero e fascino e chi più ne ha più ne metta. Ma visto che lavoro e incombenze domestiche non mi lasciano molto tempo, ho preferito tenermi sul vago.


Quello che mi chiedo, a distanza di tutti questi anni dalla mia giovinezza e dai miti d’oltreoceano, è come sia stato possibile innamorarsi dell’America, del luogo in cui è stato coniato il maledetto concetto di business che oggi, rapportato a quell’etica del lavoro che ho avuto modo di conoscere nel corso della mia vita e ri-conoscere in molte persone di modesta e sudata fortuna, sembra un’atrocità. Intendo la legittimazione dell’accumulo osceno di ricchezza a cui tutt’ora assistiamo. Naturalmente la mia è una domanda retorica perché sono perfettamente consapevole di come quella parte della cultura americana di cui ci si è innamorati allora, non aveva nulla a che fare con il denaro. Semmai il contrario.


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